I COMUNISTI JUGOSLAVI
SCHIACCIATI TRA DUE STALINISMI

Dopo il grande scontro ideologico fra il maresciallo Tito e l'Urss I "compagni" finirono in carcere a migliaia. La scelta di una delle due tesi comportava la condanna dall'una o dall'altra parte

Agli inizi fedele seguace di Josif Stalin, quando il leader sovietico critica alcune sue decisioni Tito respinge qualsiasi ingerenza esterna nella sua linea politica. Come conseguenza, nel 1948, la Lega dei comunisti iugoslavi viene espulsa dal Cominform; Tito allora, invece di adeguarsi, sceglie la resistenza, propugnando una "via nazionale al socialismo" che si fonda su forme di autogestione nelle industrie, nuovi programmi economici più liberisti e un parziale decentramento del potere governativo (primo passo verso le spinte nazionalistiche che sarebbero in seguito emerse all'interno delle repubbliche). Negli anni Sessanta, Tito si unisce ad alcuni leader dell'Africa e dell'Asia per promuovere il concetto politico di "non allineamento", ossia una posizione di neutralità nei confronti dei due blocchi, quello sovietico del patto di Varsavia e quello nordamericano della NATO.

Una parziale riconciliazione con l'Unione Sovietica (1955) accresce ulteriormente il prestigio di Tito sia in patria sia all'estero. Egli appoggia la politica sovietica di distensione con l'Occidente, ma protesta contro l'invasione dell'Ungheria (1956) e della Cecoslovacchia (1968) e l'intervento in Afghanistan (1979). La sua linea politica e la parziale autonomia conservata nei confronti dell'URSS influenzano la sfida che, negli anni successivi, Cina, Albania e i paesi europei del blocco comunista lanciano all'Unione Sovietica. Dopo la sua morte, le tendenze separatiste e nazionalistiche tra le repubbliche rivali, che il suo governo e il suo carisma personale erano sempre riusciti a contenere, si inaspriscono tragicamente e danno origine alla sanguinosa guerra civile (1991-1995) che determina il disfacimento della Federazione iugoslava.

A Fiume la dichiarazione di guerra dell'Italia alla Francia e all'Inghilterra del 10 giugno 1940 fu accolta senza eccessiva enfasi.
La posizione delicata della città circondata dal territorio jugoslavo, consigliava ai fiumani estrema prudenza.
Il regime fascista era molto preoccupato delle possibili reazioni degli allogeni e degli jugoslavi presenti in città.
Secondo la Prefettura di Fiume nel 1940, vivevano a Fiume: 41.314 italiani, 11.199 allogeni, 6933 stranieri, 1146 individui con dubbia cittadinanza o apolidi, per un totale di 60.592 abitanti. A questi si dovevano aggiungere i circa ventimila cittadini di nazionalità croata e slovena, che grazie alla tessera di frontiera potevano circolare liberamente per Fiume.
La presenza di tanti slavi a Fiume provava i limiti e le discrasie della politica di denazionalizzazione operata dal fascismo italiano, che però non provocò un esodo di sloveni e croati paragonabile a quello sofferto dagli italiani sotto la Jugoslavia di Tito.
In Europa, nel frattempo, il conflitto si allargava sempre più; il 28 ottobre 1940 l'Italia attaccò la Grecia, mentre in Africa orientale si moltiplicavano gli scontri con i britannici.
Quando, poi, in Jugoslavia avvenne il colpo di stato capeggiato dal generale filo-britannico Dušan Simovic che favorì la nascita di un governo antitedesco, la guerra contro gli jugoslavi divenne inevitabile.
A Fiume nella notte del 31 marzo 1941 il prefetto Temistocle Testa emanò l'ordine di mobilitazione civile: le maestranze del silurificio, con le attrezzature più importanti vennero trasferite a Livorno, mentre il petrolio e la benzina della Raffineria R.O.M.S.A. furono messi al sicuro a Trieste.
Le operazioni belliche contro la Jugoslavia iniziarono il 6 aprile 1941 da parte tedesca, mentre qualche giorno più tardi iniziò l'invasione dell'Italia. Nel settore fiumano l'11 aprile alle ore 17 le truppe italiane varcarono il ponte sull'Eneo per occupare Sussak.
Il 17 aprile l'alto comando militare jugoslavo si trovava già nella situazione di dover sottoscrivere la resa senza condizioni.
Alla capitolazione dell'esercito jugoslavo, fecero seguito le indicazioni sul futuro dell'area occupata, con gli ingrandimenti territoriali a vantaggio dell'Italia presso Fiume, in Slovenia, nella Dalmazia nord occidentale e a Cattaro.
Mentre lo stato jugoslavo si dissolveva, il 10 aprile 1941 fu proclamato a Zagabria lo Stato Indipendente di Croazia con a capo Ante Pavelic; quasi contemporaneamente nascevano lo stato serbo e quello montegrino.
Alla nuova Provincia italiana del Carnaro, dopo la resa jugoslava, erano stati aggregati i distretti di Castua, di Delnice ( Distretti di montagna - Gorski Kotari), la zona costiera di Sussak e Buccari con le isole di Veglia e di Arbe.
La guerra nei Balcani iniziò a prendere una brutta piega per l'Italia già nel giugno 1941, quando la Germania ataccò l'Unione Sovietica.
In quell'occasione il Comintern invitò i comunisti jugoslavi a intraprendere la lotta contro il nazifascismo e nell'estate del '41 nacque il movimento insurrezionale partigiano comunista capeggiato da Josip Broz detto Tito, e per altri motivi quello "cetnico" di tendenza monarchica del generale serbo Draza Mihajlovic. Nel distretto fiumano, ancora lontano dai teatri di guerra, la vita scorreva relativamente tranquilla; solo nella primavera del 1942 furono rinvenuti i primi volantini e scritte sovversive in versione italiana e croata, firmati dal Comitato locale del Partito Comunista croato.
Nell'estate del 1942 nei dintorni di Fiume, a Clana e a Castua, si registrarono alcuni scontri armati assai insidiosi tra truppe regolari italiane e forze jugoslave irregolari, quest'ultime appoggiate da una parte della popolazione rurale ostile al regime nazionalista di Pavelic.
Contrariamente ai dintorni, a Fiume vi era una scarsa adesione delle masse popolari al movimento partigiano jugoslavo e tale mancanza verrà fatta scontare alla popolazione dopo l'occupazione della città.
Con l'aggravarsi della situazione dal 25 aprile 1942 fu imposto il coprifuoco nella zona nord-occidentale della Provincia di Fiume e il giorno dopo il prefetto Testa dispose l'esecuzione di "esemplari" rappresaglie per ogni delitto commesso contro militari e civili.
Qualche mese dopo, il 10 giugno, a Podhum (località a pochi chilometri a nord est di Fiume) si verificò un grave fatto. I partigiani jugoslavi, incuranti delle nuove disposizioni rapirono il maestro italiano Giovanni Renzi con la moglie facendoli scomparire.
La risposta italiana fu molto dura, la popolazione del paesino fu passata per le armi e le case incendiate. Ai fatti di Podhum fecero seguito una serie di arresti e di processi contro militanti antifascisti della zona e alla fine del 1942 ogni forma di resistenza attiva poteva considerarsi da parte italiana debellata.
Un fatto grave per gli italiani della Venezia Giulia orientale fu il passaggio nell'estate del 1943 dei comunisti italiani dell'Istria e di Fiume al Movimento di Liberazione jugoslavo.
A Fiume ci fu un ultimo tentativo di Ermanno Solieri detto Marino, appartenente alla federazione del Partito Comunista italiano di Trieste, di mantenere l'influenza del comunisti italiani nella zona ma non ebbe successo.
I comunisti jugoslavi non vollero assolutamente cedere sulla questione giuliana e alla fine di novembre del 1943, quando Tito convocò a Jajce (Bosnia) il Consiglio territoriale antifascista jugoslavo, furono ufficialmente rivendicati i diritti slavi sulla Dalmazia, Fiume e su tutta la Venezia Giulia; comprese Trieste, Monfalcone e Gorizia. Per l'Italia il conflitto stava andando malissimo, il 25 luglio 1943, dopo una serie di sconfitte nei vari fronti, ci fu anche l'invasione alleata della Sicilia.
Quello stesso giorno si riunì il Gran Consiglio del Fascismo che esautorò Mussolini.
Il giorno successivo il re Vittorio Emanuele III fece sapere di aver assunto il comando di tutte le Forze Armate e di aver accettato le dimissioni del Duce dalla carica di Capo del governo.
Al generale Pietro Badoglio fu affidato dal re il governo militare del Paese con pieni poteri. La notizia pervenne a Fiume causando preoccupazione e disorientamento a tutti i livelli. Ci fu un tentativo di manifestazione organizzata da un movimento di antifascisti presso le carceri della questura di via Roma, ma fu facilmente dispersa.
La guerra, però, non era affatto finita e molti fatti tragici dovevano ancora avvenire.